Pao Pao, il secondo romanzo scritto da Pier Vittorio Tondelli, e pubblicato nel 1982 da Feltrinelli, è la storia di un anno di servizio militare. E sarebbe stato un micro universo abbastanza consono e inflazionato se a raccontarlo non fosse stata la penna di Pier. Il suo sguardo è ciò sempre fa la differenza sulla narrazione delle cose: è un modo di guardare altro, diverso, che profuma di malinconia e che a tratti e ironico un po’ perché la sua scrittura è quasi onomatopeica e un po’ perché è vera, è la scrittura del dialetto, delle cose dette esattamente così come sono ed è sempre un punto di vista che fa emergere sfumature di colori e sentimenti anche in un mondo che è totalmente grigio di piombo, aridità e ordini. E lo capiamo ad ogni pagina, la mia preferita è la 145, quando scrive così:
“Subito ero commosso, ricordo una vicenda incredibile di un contadino sardo che aveva fatto scrivere la lettera dal prete della sua parrocchia e alla fine aveva siglato con una croce e io allora presi a girare come un pazzo per i corridoi del ministero facendola vedere a tutti gli ufficiali e dicendo che non era possibile che ci fosse ancora gente ridotta così e si spendessero tutti quei soldi per armerie e cose del genere, mi prendeva una rabbia terribile, facevo tutto favorevole finché il colonnello mi ha chiamato e ha detto che se son gentile d’animo sta bene, però vedessi un poco di fare per benino il mio lavoro e non tutta un’avemaria come se fossimo in una confraternita e non nel patrio esercito”.
Nel retro di copertina, poi, scopro che la sigla PAO è l’acronimo di Picchetto Armato Ordinario e per questo è ritenuta uno strumento utile per il lettore per evocare subito l’esperienza della caserma, insomma, l’ambientazione all’interno di una caserma militare. Un immaginario, questo, che difficilmente avrebbe agganciato una come me, vuoi per motivi forse cromosomici, vuoi per indole o per il fatto che non ho nessuna familiarità con questo ambiente di cui mi è rimasto solo addosso la sensazione di alienazione, provata da ragazzi poco più che maggiorenni, costretti a viverlo, considerati numeri, cose di passaggio; e la distanza, intesa proprio come senso di mancanza e di nostalgia nei confronti delle persone care, del proprio mondo e ambiente domestico. Questi militari, compagni di avventura del nostro protagonista, come lui sono tutti pesci fuor d’acqua, sbattuti a destra e sinistra in giro per l’Italia per un anno intero.
“Scrivo in quei giorni quasi un centinaio di cartoline illustrate, scrivo a tutti, a gente che non vedo da anni, ad amici del borgo, a conoscenti, a illustri sconosciuti. È molto importante riannodare queste tresche di affetti. È molto importante riannodare queste tresche in affetti. Mi serve a non sentirmi un pesce completamente affogato nella sua acqua febbricitante.” (p 43)
E poi il gancio:
“Oh certo fa lui, passo a chiamare un altro, aspettami di sotto. Accendo la pipa. Pietro arriva con uno altissimo e bellissimo. Mi presenta. Bè, signori miei, è proprio Lele. Tutto allora, per un attimo, riprende a funzionare.” (p 41)
E poi l’amore:
“Torniamo in caserma insieme, sto molto bene al suo fianco, non ho problemi di passo, c’è un accordo che subito nasce fra le nostre andature, un ritmo fra i nostri discorsi, la bellezza di scoprire un continente nuovo. E questa terra a cui approdo è naturalmente lui, il mio Lele. Quando poi ho amato il mio Lele, quando l’ho desiderato. Volevo mangiarmelo il mio Lele, aderirgli addosso come una spugna bagnata, volevo succhiarmelo e bermelo d’un fiato il mio Lele. Lo volevo con me, volevo schiantarmi sotto le sue reni, volevo annegarmi nelle sue grandi braccia, volevo appiattirmi sulla sua pelle tesa e vibrante come una seta. Volevo cacciarmelo in fondo al cuore il mio Lele, volevo cullarmelo in testa come una canzoncina e fischiarmelo dentro come un accordo. Volevo sbronzarmi del suo odore, volevo aggrapparmi ai suoi lobi e alle sue gambe alte, volevo stringere le sue spalle, volevo succhiare il suo petto e ingoiarmelo, volevo urlare con Lele, volevo sentirmelo venire in grembo, volevo entrare nella sua schiena spianata, volevo baciarmelo, trastullarmelo, confonderlo nei miei movimenti di amore, nei fremiti, nei gemiti. Volevo poi trovarmelo accanto al mio Lele, volevo scrutarlo, lo volevo disteso e finalmente placato, lo volevo felice. Io amavo il mio Lele. Ero completamente bevuto del mio amore.” (p 61)
L’amore che è il frutto di piccole scoperte quotidiane, leggeri allineamenti di pensieri condivisi, sguardi che confermano, che capiscono, che si intrecciano, parole che diventano sintagmi di un vocabolario tutto personale, della coppia, cose che capiscono solo loro due. E poi quello sfiorarsi, che non è mai casuale, quell’indagare nel rispettivo passato, scoprire punti di tangenza, motivi per i quali oggi, tutti e due, siamo qui, proprio qui, io e te, e non vorremmo essere proprio da nessun’altra parte al mondo.
L’amore che non è facile da nessuna parte, figuriamoci tra due uomini dentro e fuori una caserma. L’amore che ti spinge a dire che il problema più grande è proprio il fatto che “ti abbandoni nel tuo amore quando invece anche un bambino sa che egli è una macchina diversa da sua madre e che quindi non potrà mai più raggiungerla in pienezza e consapevolezza e invece tu vuoi completamente perderti nelle braccia dei tuoi amanti, dimenticarti, innestarti su di una storia meravigliosa proprio perché non tua. Ma noi siamo anche macchine e l’unico modo per non soffrire dell’amore è lasciare che le storie ti sfiorino, ti accarezzino, ti penetrino quel minimo che è possibile. Non puoi voler di più. È impossibile voler di più. Devi lasciarti solamente sfiorare dal tuo amore, se fai tanto di alimentarlo bruci, come stai bruciando ora.”
E quanto brucia l’assenza? Perché il Tempo ti ammazza, questo è certo, ma anche ti salva, è vero, ma quanto fa male il silenzio degli amanti costretti a stare lontani? Lo abbiamo provato tutti quel dolore lì. E se dovessero esistere persone così fortunate da non aver dovuto subire alcuna pena d’amore che dio le protegga sempre dal dolore del cuore spezzato, dalla sensazione di perdita e di lutto che segue al rifiuto di chi ti volta le spalle perché non riesce a provare lo stesso amore che provi tu, con la stessa intensità. E la solitudine, che ti scava dentro, e che colpisce allo stomaco di fronte alle altre coppie felici, alle altre mani che si stringono a passeggio per strada, agli sguardi innamorati che non sono mai per te e ogni secondo, ogni millesimo di secondo, pensare a lui, che vorresti lì, per essere felice una volta anche tu, e avere una mano stretta alla tua e quello sguardo che ti cerca tra la folla e che si illumina quando incontra. Puoi provare ad andare avanti, a sostituire quella persona con un’altra persona, quell’amore con un altro amore, ma in cuor tuo sai che non sarà mai lo stesso.
“ […] mi dicevo sono qui con l’Erik e sto scopando e io lo amo alla follia, ma questo non basta, accidenti non basta proprio. Non era mai successo e ancora non s’è mai ripetuta quella vibrazione di paura che mi ha irrigidito il cervello fin quasi a ibernarlo in una zona staccata, completamente fuori. Io amo il mio Erik, ma non mi basta e c’è nient’altro, assolutamente nient’altro, che io possa fare. Tutto il mio amore s’era rivoltato improvvisamente in una zona desolata di angoscia, che può fare di più un uomo quando ama oltre l’amore?” (p 172)
E in questo flusso di coscienza in cui il protagonista di Pao Pao ripercorre un anno intero di vita a correre di notte tra le strade di Roma, a mangiare nelle osterie in quei rari momenti di congedo, c’è questo momento in cui Lele diventa un pensiero fisso, ma tenuto nascosto, talmente tanto in fondo alla memoria da decidere di andare avanti e di provare a sostituire Lele con Erik; a opporre al grigiore del sistema burocratico e militare un barlume di vitalità. La ricerca disperata di un amore.
Ma qui il nostro protagonista è uno che ama oltre l’amore, è uno che è davvero convinto quando dice “nessuno mi farà soffrire tanto quando ci lasceremo e ancora io chiederò a me stesso se davvero amavo il mio Erik, se ero tutto per lui come dicevo o se invece altro non è stata che una bella storia nata all’improvviso e non programmata, una delle tante storie che sempre ogni giorno ci auguriamo accada di nuovo il cui solo pensiero basta a spingerci la notte, ogni notte, alla ricerca di quel cesto di braccia fingendo che noi stessi e mentendo, poiché l’amore è come un dono degli dei che si muove sulle ali del vento sempre inafferrabile e sempre inseguito; l’amore non è mai là dove lo cerchiamo e vola via da dove lo crediamo. Proprio per questo e dell’amore e degli dei dobbiamo imparare a fare senza.” Lo dice a pagina 169. Lo dice anche la pelle del mio avambraccio destro e lo dice anche il tuo cuore se hai sofferto per amore. Alla fine, però, devi avere cura del fatto che ce la possiamo fare e che ce la facciamo. Andiamo avanti non grazie alla salvezza divina e non grazie all’amore, ma sempre e solo grazie alla nostra forza di volontà.
Essere felici è la scelta più importante che possiamo fare e comunque “[…] le occasioni della vita sono infinite e le loro armonie si schiudono ogni tanto a dar sollievo a questo nostro pauroso vagare per sentieri che non conosciamo.”
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